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OCCORRE ASSOLUTAMENTE EVITARE

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CHE UCRAINA E ISRAELE SOCCOMBANO

ALL’ASSE DEL MALE MOSCA-TEHERAN

(MA NOI SIAMO ANCORA ALLE PRESE

CON LA “QUESTIONE (U)MORALE”)
C’è un doppio filo rosso, anzi nero, che unisce la guerra scatenata da Putin in Ucraina, il conflitto israelo-palestinese a Gaza e l’attacco dell’Iran a Gerusalemme, cui in queste ore è cominciata a seguire l’inevitabile risposta israeliana. Il primo riguarda sia lo scopo ultimo di chi attacca (Russia, Hamas, Iran con sullo sfondo la Cina e comprimari vari), indebolire l’Occidente e l’Europa in primis, sia il loro intreccio militare e finanziario. Il secondo riguarda chi è attaccato (Ucraina e Israele quali avamposti occidentali rispettivamente nel mondo ex sovietico e mediorientale), e attiene alla debolezza politica sia di quei due paesi – l’uno con una guida che dopo essersi eroicamente affermata ha perso via via presa e credibilità e in scadenza di mandato, l’altro nelle mani di un premier screditato tanto internamente quanto di fronte all’indispensabile alleato americano – sia più in generale dell’Europa, incapace di uscire dalla logica degli interessi nazionali, e degli Stati Uniti, appesi ad un competizione presidenziale da mettere i brividi. Un doppio minimo comun denominatore in uno scenario che contrappone democrazia e autocrazia, che mette il mondo, e noi che siamo terra di confine prima di altri, al cospetto del rischio di un gigantesco conflitto, potenzialmente anche nucleare. Non voglio spaventare nessuno, ma è giunta l’ora di prendere piena consapevolezza di questo pericolo, che non si esorcizza né con il silenzio della sottovalutazione né con il rumore del pacifismo (talvolta paradossalmente anche violento).

 

Purtroppo, sono ancora pochi coloro cui appare chiara l’equivalenza tra Mosca e Teheran. In Europa c’è voluta la voce della Kallas (Kaja, premier di quella “tigre baltica” che è l’Estonia) per ricordare che negli anni Trenta del secolo scorso l’invasione italiana dell’Abissinia, la militarizzazione della Renania e la guerra civile spagnola furono eventi interconnessi che per mano di Hitler portarono l’Europa al disastro della Seconda guerra mondiale. E per affermare senza ipocrisie che è stata la troppo debole risposta occidentale all’invasione russa dell’Ucraina a generare le condizioni favorevoli per il doppio attacco iraniano contro Israele, quello per mano di Hamas del 7 ottobre e quello diretto di pochi giorni fa. Non si chiama Maria e ha la K al posto della C nel cognome, ma la Kallas al Consiglio europeo l’ha cantata a tutti la vera verità: senza un ulteriore, decisivo sostegno a Kiev la guerra sarà persa, e se così andrà a rimetterci saremo tutti perché andrà in frantumi la pace mondiale.

 

Anche perché l’azione del Cremlino non si ferma all’Ucraina. Un ottimo resoconto del Foglio ci informa che negli ultimi 45 giorni i russi, alla faccia dei pattugliamenti della missione navale europea Irini, hanno sbarcato da loro navi (ma anche battenti bandiera camerunense) nel porto di Tobruk, nella Libia orientale, un enorme carico di mezzi militari, premessa per la costruzione, con il permesso Haftar, di una seconda base navale affacciata sul Mediterraneo dopo quella di Tartus. Situazione analoga in Niger, dove uomini e mezzi dell’African Corps, ex mercenari della brigata Wagner ora inglobati nella Difesa moscovita, sono arrivati con l’accordo della giunta golpista nigeriana che l’anno scorso ha rovesciato il regime di Niamey, nonostante un goffo tentativo americano di impedire l’estendersi dell’influenza della Russia. E questo espansionismo in stile sovietico fa da sfondo alla partnership strategica tra le autocrazie di Mosca e Teheran. I termini della quale non sono custoditi solo in report inaccessibili delle intelligence occidentali. Joby Warrick, per esempio, li descrive sul Washington Post con dovizia di particolari: scambi di armi (satelliti spia, missili, razzi, ma soprattutto droni che vengono coprodotti) e di tecnologie militari, ma anche di conoscenze scientifiche e di frotte di ingegneri. Il livello della collaborazione è elevato, sostanzialmente paritario e le sperimentazioni godono del vantaggio di essere fatte sul terreno (ucraino, ovviamente). L’ultima fase della pressione militare di Mosca sull’Ucraina è stata fortemente caratterizzata da armamento iraniano (pagato in lingotti d’oro), mentre l’eventuale risposta israeliana contro basi del regime degli Ayatollah troverebbe a difesa missili antiaerei e sistemi anti-stealth made in Russia. Strategia, questa, cui si somma quella della “pressione migratoria”, che consiste nel creare le condizioni di forti flussi migratori (dalla Siria, dalla Libia e dalla stessa Ucraina) verso i paesi europei, fino al punto di destabilizzarli (approfittando che alcuni, come l’Italia, non li sanno gestire).

 

Ma Putin non si ferma certo qui. Nei giorni scorsi in Germania la polizia ha arrestato due cittadini russi accusati di preparare, con il sostegno dei servizi segreti moscoviti, un attacco esplosivo ai siti industriali e militari di Bayreuth, da dove partono gli aiuti tedeschi all’Ucraina. Ed è ormai nota la pianificazione di una campagna di disinformazione e di altre operazioni politiche, militari, commerciali e psicologiche contro i paesi che Putin considera nemici. Ma è soprattutto l’intervista rilasciata a Paolo Valentino del Corriere della Sera da uno dei più ascoltati consiglieri di politica estera del Cremlino, Dmitrij Suslov, a dirci una cosa molto importante sulle intenzioni della Russia, che da noi i pacifisti sinceri faticano a comprendere e quelli doppiogiochisti fanno finta di ignorare: a Putin non interessa tanto conquistare territori, quanto “anestetizzare” militarmente l’Ucraina rendendola un paese parte integrante del Russkij Mir, il mondo russo, di cui Zar Vlad si è autonominato profeta e campione, come scrive Valentino, e che si fatica a non percepire come disegno neo-zarista e neo-sovietico. Ciò che interessa veramente all’autocrate russo è il riconoscimento della Russia come grande potenza, con il corollario di vaste zone di influenza, nell’ambito di un’Europa indebolita e abbandonata al suo destino dagli Stati Uniti. “Con o senza cessate il fuoco, il nostro complesso militar-industriale continuerà a crescere e rafforzarsi”, dice soavemente Suslov. Ecco perché non ha senso invocare, con sempre maggiore frequenza in Occidente, non meglio specificate trattative di pace, tanto meno quelle che hanno la pretesa di provocare sensi di colpa in chi nutre dubbi. Per il semplice motivo che è Putin a non essere minimamente interessato ad alcun altro negoziato che non sia la resa incondizionata di Kiev. Un’opzione sciagurata che significherebbe non solo la condanna a morte dell’Ucraina, ma anche una resa politica, militare e morale che ci costerebbe le pene dell’inferno.

 

Per questo occorre che l’Occidente, e l’Europa in particolare, cambi strategia, e al più presto. Quando leggo che l’ultimo vertice europeo ha partorito il topolino delle sanzioni all’Iran dopo l’attacco a Israele e quando sento il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel dire che per i nuovi aiuti militari a Kiev “è questione di settimane”, mentre è evidente che ogni minuto che passa è un ritardo criminale, mi cascano le braccia. Occorre accorciare immediatamente il gap che vede la Russia produrre munizioni in misura tre volte superiore a quelle di Europa e Stati Uniti messi (su base annua 3 milioni contro 1,2). E occorre fornire all’Ucraina sistemi di difesa sofisticati: pensate quale sarebbe l’effetto, pratico e psicologico, se Kiev potesse disporre di quei sistemi di intercettazione di missili e droni che hanno consentito a Israele di uscire pressoché indenne dall’attacco iraniano nella notte tra sabato 13 e domenica 14 aprile.

 

Sul fronte medio-orientale, da un lato occorre sostenere con ogni mezzo la rivolta civile del popolo iraniano stanco di subire la repressione e l’impoverimento imposti dal regime khomeinista, e dall’altro bisogna evitare l’isolamento di Tel Aviv nello stesso mondo occidentale. È vero che in occasione dell’attacco iraniano le forze anglo-americane hanno aiutato Israele, mettendo tra parentesi le divergenze con Netanyahu, e anche paesi come la Giordania si sono attivati, ma occorre cancellare lo stigma verso gli israeliani di gran parte delle opinioni pubbliche internazionali, generato dopo il 7 ottobre dalla guerra a Gaza. Capisco le ragioni della prudenza e della diplomazia che induce molti, Italia compresa, a invocare moderazione per evitare un’escalation, ma non riesco a dar torto a chi, come Bernard- Henri Lévy, sostiene che se attendiamo che la “mullarchia” (fantastica definizione del filosofo francese) finisca di attrezzare il suo arsenale nucleare, dopo sarà altro che drammatica l’escalation che Teheran imporrà senza farsi alcuno scrupolo.

 

Ma per evitare che l’Ucraina soccomba, srotolando un tappeto rosso sotto i piedi di Putin e dei suoi disegni imperialistici, e per aiutare la democrazia di Israele a sopravvivere sconfiggendo Hamas, Hezbollah, gli Huthi ma soprattutto il regime degli Ayatollah che li arma, li finanzia e li protegge, occorre dispiegare una grande e coraggiosa azione politico-culturale. Occorre cioè che in Europa e in tutta la parte libera e democratica del mondo le classi dirigenti e le opinioni pubbliche prendano finalmente coscienza che i regimi di Mosca e Teheran, che marciano separati per colpire uniti, sono i nostri nemici. Che oggi hanno nel mirino Ucraina e Israele, ma che domani possono averci tutti noi. Prima che sia troppo tardi.

 

 

ps. se per questa edizione numero 14/2024 di TerzaRepubblica avessi deciso di occuparmi di politica interna, avrei dovuto scrivere del prepotente ritorno sulla scena della “questione morale”, per effetto dei tanti scandali che tra Puglia, Sicilia e Piemonte hanno messo nel tritacarne le classi politiche locali di sinistra e destra. Esprimendo ancora una volta il mio rammarico – sono ormai 30 anni che accade – perché nonostante non sia dato sapere se le accuse siano fondate e provate, tanto è bastato per parlare di nuova Tangentopoli e per tornare a sventolare la bandiera della “questione morale” – con annessa produzione di isterico moralismo, che è l’opposto della buona politica – con la destra che moralizza la sinistra usando la clava giustizialista, la sinistra che moralizza la destra che per difendersi si riscopre garantista, e il centro che censura entrambi gli schieramenti. In una ridicola corsa a definirsi “puri” – di solito ad appannaggio dei peggiori – senza aver imparato l’antica lezione secondo la quale alla fine arriva sempre qualcuno più (presunto) puro che ti epura. E avanti così per l’eternità, senza che nessuno si ponga il problema del costo della politica e quindi del suo finanziamento, senza nessuno che rifletta sulla mancata selezione della classe politica, senza nessuno che prima di sbraitare a favore del decentramento e dell’autonomia in nome della vicinanza ai cittadini prenda atto che la corruzione è molto più presente e pervasiva a livello locale che nazionale. Ma per continuare a riflettere su questa questione “u-morale” vi lascio alla straordinaria puntata di War Room di giovedì 18 aprile con Adornato, Cundari e Follini (qui il link )

Vista la quale, capirete perché ho lasciato agli inguardabili talk show televisivi le beghe nostrane (Amadeus compreso, che tanto preoccupa la presidente del Consiglio) e mi sono occupato delle ben più decisive questioni internazionali. A sabato prossimo.

 

 

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