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Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato.

Questa notte ho sognato di essere in viaggio a New York.

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Come in tutti i sogni, i paesaggi erano irreali, carichi di colori, evocativi più che tangibili. Ricordo che attraversavamo una campagna ricca di colture in salute e case insolite e, poi, giungevamo nella città vera e propria, grande, possente e luminosa come nella realtà.

Rammento anche che trascorrevamo una notte al centro, in un appartamento; il mio letto era giusto sotto una finestra. I suoni della città cullavano il sonno; l’infisso era spalancato: l’aria era tiepida e prometteva avventure.

Oh, naturalmente scrivo in prima plurale perché pure nel sogno non mi staccavo dalla mia famiglia, infatti mia moglie ed io mostravamo le cose ai nostri figli. Ho chiamato Freud, dice che i sogni sono il mio inconscio che emerge. Non ha mancato di aggiungere che sono un bacchettone pure nei sogni, se mi porto appresso moglie e prole e non mi immergo in baccanali. Ma lui è un po’ fissato con certe cose, sapete come è fatto.

Quanti di noi sognano di viaggiare? Io lo faccio spesso. Non ho mai desiderato così tanto di evadere, vedere nuovi paesaggi, confrontarmi con stimoli diversi dal quotidiano. Sono sicuro valga lo stesso per voi. Per tutti voi, o quasi. Perché uno dei risultati più certi di questa pandemia è il comune sentire. Non solo nei sogni.

“Come stai?”. Io ci ho sempre messo più del dovuto, a rispondere, perché per me è una domanda vera, non il semplice “How do you do?” degli inglesi. Tant’è che il mio interlocutore, qualche volta, stava lì per lì per dirmi: guarda, si tratta solo di un convenevole, non farmi perder tempo!

Ma adesso non sono più il solo. Quando lo domando, per la prima volta, noto che la risposta è sempre più di rado automatica. Nessuno o quasi risponde “Bene, grazie!”: molti sorridono e basta, altri aggiungono “Combattiamo” o frasi del genere. C’è chi diviene pensieroso, chi sembra spronare se stesso con un “Bene, dai!”. Di certo non è come prima, che tutti, frettolosamente, badavano al sodo.

Eh già, perché oggi, il sodo è proprio questo: come stiamo? Io rispondo, spesso, seppur con gli occhi che sorridono: “In apnea”. E, quando lo affermo, colgo un misto tra sollievo ed empatia nell’altro. Perché, in questa epoca breve ma ampia e dolorosa di restrizioni nelle nostre libertà più elementari, ci sentiamo come pesci rossi in una piccola bolla oppure sommozzatori in immersione (sì, i pesci rossi respirano ma ci siamo capiti).

Il nostro stato psico-fisico non è più una costante ma una variabile, da prendere molto sul serio, da stimare concretamente giorno dopo giorno. Mai avevamo sperimentato questa solitudine, mai la disumanità del non potersi letteralmente guardare in faccia, mai – per esempio – il divieto o il rischio nell’andare a scuola o prendere un caffè al bar o assistere ad un concerto o tifare allo stadio.

Quindi: come stai? “Così così” non va bene: non c’ho il covid, magari nessuno ce l’ha tra i miei cari, quindi “Bene!”. Però dai, bene bene no. Magari non vediamo i nostri genitori o i nostri fratelli da un po’, altro che bene. Magari temiamo il nostro futuro, quello del Paese. Magari siamo in ansia per un amico, magari soltanto perché sembra non vedersene la fine. E quindi: “Eh, come tutti!”.

Già: come tutti. La pandemia e tutte le stravaganze moleste che ha portato, questo ha fatto: ci ha accomunati in questa nostalgia della nostra perduta umanità. In qualche modo, ci ha reso tutti più simili.

Un’uguaglianza di cui avremmo volentieri fatto a meno ma che è tangibile quando qualcuno ci chiede: “Tu come stai?”.

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