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CHE ERRORE POLITICO

LO SCIOPERO CONTRO DRAGHI

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UN BOOMERANG PER CGIL-UIL

E FA MALE AL PAESE
di Enrico Cisnetto

Scioperare, in democrazia, è legittimo. Anzi, rientra nella fisiologica dialettica sociale e politica come forma di confronto tra le parti sociali, e tra esse e le istituzioni. Ma proprio perché le mobilitazioni sindacali si innestano all’interno di una complessa dinamica di relazioni industriali, dove vengono messi in connessione (e competizione) i diversi interessi, con l’intento non solo di rappresentarli ma anche e soprattutto di contemperarli, quello che è determinante è il contenuto stesso degli scioperi, e la loro efficacia nel raggiungere gli obiettivi che si prefiggono. Sono i motivi per cui vengono indetti che li definiscono, li qualificano, li collocano nel contesto e gli danno un senso. Per questo, lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil per il prossimo 16 dicembre – ma senza la Cisl, che ha deciso di distinguersi – difficilmente si può annoverare tra quelli politicamente “intelligenti”. Protestare contro la legge di Bilancio poco prima che venga approvata, quando tutto è praticamente definito ed è davvero improbabile che possa cambiare qualcosa, e per di più dopo lunghi mesi di trattative in cui le parti sociali avrebbero potuto e dovuto rappresentare con forza le proprie proposte – avendole – appare come un tentativo esplicito di alzare la tensione. Con un solo obiettivo perseguibile: rappresentare l’esistenza in vita di chi l’ha promosso. D’altra parte, Landini lo ha fatto capire: la colpa del governo è aver scritto la Finanziaria in autonomia. A prescindere da cosa contenga. Come dire, doveva farla sotto dettatura. Decisamente una forzatura.

 

Ma proviamo stare sul merito. A stringere l’inquadratura e guardare i dettagli, la motivazione formale dello sciopero è davvero poco convincente, fin dalle fondamenta. Secondo Landini e Bombardieri, infatti, con i nuovi provvedimenti fiscali il governo non starebbe tagliando le tasse alle fasce più deboli. Ora, a parte che 7 degli 8 miliardi destinati al taglio Irpef, cioè l’85%, è concentrato su lavoratori dipendenti e pensionati fino a 50 mila euro di reddito, il punto è che per le fasce davvero basse c’è poco da tagliare. I lavoratori fino a 15.000 euro (8,2 milioni, pari al 38,4% del totale dipendenti) non versano alcuna imposta grazie all’effetto del bonus. Fino a 20 mila euro rientra il 51,77% dei contribuenti, ma da qui viene solo il 6,22% dell’Irpef versata. Invece, nella fascia oltre i 35 mila euro lordi si trova solo il 13,22% del totale (5,5 milioni, meno del 10% della popolazione), che però paga il 58,86% di tutta l’Irpef. Tagliare qualcosa a loro, oltre a rendere più omogenei gli scaglioni delle aliquote, può aiutare a rianimare la fiducia perduta, e di conseguenza ravvivare la esangue domanda interna. Il segretario Fim-Cisl, Roberto Benaglia, ha spiegato che nella fascia di reddito tra 30 e 35 mila euro c’è “una riduzione delle aliquote che vale alla stregua di un raddoppio della tranche contrattuale”. Giusto. E poi, suvvia, come si può considerare ricco chi guadagna 40 mila euro lordi, magari con famiglia a carico?

 

Questo non significa che la manovra di bilancio sia perfetta, anzi. Sotto molti punti di vista è apparsa deludente, specie se si considera che era la prima di Draghi e che poteva essere un’occasione per mettere le premesse per le riforme che dobbiamo realizzare nell’ambito del Recovery. Per chi non l’avesse già fatto, vi invito ad ascoltare la War Room di giovedì 9 dicembre (qui il link) sulla crisi demografica e le sue conseguenze, dalla quale è emerso con chiarezza che il nodo del progressivo e crescente calo della popolazione (sono anni che i decessi sono decisamente superiori alle nascite e i flussi migratori richiudono solo in parte la forbice) va affrontato insieme alla riforme fiscale e a quella previdenziale, perché le tre questioni sono fortemente in correlazione.

 

Insomma, i problemi da risolvere sono tanti e se si hanno davvero a cuore i più deboli – disoccupati e giovani, cioè i non garantiti – le cose su cui incalzare il governo non mancano. Per un sindacato moderno, che non viva di riflessi condizionati, fatti di vecchi strumenti di lotta e di slogan vetusti, il previsto tavolo di negoziato sulle pensioni, la questione degli ammortizzatori sociali per i quali il governo ha stanziato nuove risorse (2,5 miliardi in più rispetto a ottobre, arrivando a 5,5 in totale), il nodo delle politiche attive del lavoro da sciogliere, sono tutti preziosi spazi di dialogo. Senza contare che l’Unione europea ha appena emanato una direttiva che potrebbe rivoluzionare la normativa sul lavoro in alcuni comparti, come quello della gig economy e dei riders. Per esserci, in modo costruttivo, su questi fronti, che utilità può avere una fermata del Paese? A che serve una scelta tutta politica come uno sciopero generale, uno strumento quasi desueto se si considera che dagli anni Ottanta ad oggi ne stati proclamati solo 15?. Sia chiaro, tutti gli scioperi sono “politici”, ma c’è politica e politica: questo è di mero posizionamento.

 

Tra l’altro, secondo la Commissione di garanzia sugli scioperi, la data del 16 dicembre non rispetta il “periodo di franchigia” previsto per servizi postali, igiene ambientale e servizi alla collettività. Inoltre, viola la regola della “rarefazione oggettiva”: in pratica è troppo vicino ad una serie di altri scioperi programmati per singoli settori. Per cui andrebbe riprogrammato. Ciononostante, Cgil e Uil, forzando la mano, confermano lo sciopero generale, ma escludendo i settori in cui c’erano mobilitazioni concomitanti, anche a costo di spaccare l’unità sindacale. Perchè? Possibile che Landini e Bombardieri abbiano l’intenzione di andare allo scontro con il governo Draghi per dimostrare che il clima è cambiato, che la fase di concordia nazionale è finita? Di certo a spingerli in quella direzione non possono essere state le forze politiche cui Cgil e Uil da sempre fanno riferimento. E non solo perché Enrico Letta ha espresso “stupore” per la proclamazione dello sciopero generale. Oggi il governo ha due soli nemici conclamati: la destra – che però vorrebbe mandare il presidente del Consiglio al Quirinale per provocare le elezioni anticipate – e quel disperato dell’avvocato Conte, in parte animato dal risentimento personale verso Draghi che gli ha soffiato la poltrona, e in parte alle prese con l’improbo compito di guidare ciò che resta del movimento 5stelle (per colpa sia dei suoi limiti che per via dell’armata brancaleone che ha sotto di sé). In entrambi i casi non sono i referenti politici dei due sindacati scioperanti.

 

Inoltre, è difficile scioperare contro un governo che ha soldi da spendere ed è guidato da un uomo prudente, per nulla incline al conflitto e che per di più gode di un grande apprezzamento, sia popolare che delle èlite nazionali e internazionali, e che quando ci fu l’attacco fascista alla sede della Cgil non fece mancare la sua personale (e ben visibile) solidarietà. Dunque? Anche volendo posizionare lo sciopero solo ed esclusivamente sul terreno politico, restano un mistero sia la forzatura di Landini che la scelta di Bombardieri di andargli dietro, pur avendo a disposizione la sponda della Cisl per costruire un fronte del dialogo costruttivo. Scelte inspiegate e inspiegabili. E autolesioniste. Evidentemente sfugge alla loro memoria la sconfitta storica subita, nel 1984, dai promotori della mobilitazione sulla scala mobile: i contenuti erano strumentali, non più al passo con i tempi, estranei alla nuova dinamica economica e sociale. Un po’ come oggi, visto che con il post-Covid ancora tutto da costruire, il PNRR da attuare e la transizione ambientale da fare, lo scenario è profondamente mutato. E gli italiani, di qualunque ceto sociale, mentre i contagi aumentano e nuove restrizioni incombono minacciose sulle feste natalizie, confidano più in Draghi a palazzo Chigi che nello scendere in piazza.

 

Tra l’altro, proprio il presidente del Consiglio (come ho scritto su TerzaRepubblica del 25 settembre) aveva proposto a sindacati e Confindustria di stringere un “patto per la rinascita”, così da creare quelle condizioni di stabilità sociale propedeutiche a dispiegare le risorse imprenditoriali e del lavoro che servono a centrare sia l’obiettivo congiunturale della ripresa economica, che quello strutturale del cambiamento del modello di sviluppo. Una chiamata alla responsabilità, così da poter dare un orizzonte lungo al Paese, qualcosa che potesse andare ben oltre l’attuale congiuntura. Propositi, riassumibili nella volontà di voltare finalmente pagina, che sono alla base del consenso che il Paese, nelle sue diverse articolazioni sociali e territoriali, sta tributando a Draghi. Propositi, però, che Cgil e Uil hanno rifiutato e rispedito al mittente. Salvo poi lamentare l’assenza di dialogo e l’eccesso di decisionismo del governo (magari). Evidentemente ha ragione Dario Di Vico quando ricorda che “Cgil e Uil hanno perso la cultura di sistema dei loro grandi leader del passato, dei Lama e dei Benvenuto, e sono diventati meri gruppi di pressione”. Ma attenzione, quando i boomerang tornano indietro, fanno male.
 

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