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IL PUNTO   n. 923 del 22 settembre 2023

di MARCO ZACCHERA

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Numeri arretrati de IL PUNTO e altre news:   www.marcozacchera.it

 

Il Punto:

Il discorso immigrazione sta raggiungendo un tragico assurdo, così come le incongruenze europee (un approfondimento la prossima settimana), intanto le conseguenze delle scelte BCE gravano su tutti e “distruggono” la manovra finanziaria: ma chi davvero comanda in Europa? Non certo i cittadini europei.  Segue un approfondimento sulla situazione “giudiziaria” USA, in Italia fornita precotta e confusa.

 

TASSI, BANCHE E DISASTRI

Per l’ABI – al netto di spese, perizie e adeguamenti BCE di settembre – i tassi dei mutui per la casa sono ormai vicini al 5% ma in un solo mese c’è stata una contrazione dei contratti del 3,3% che su base annua vuol dire la riduzione di un terzo delle pratiche.

Ancor peggio i prestiti alle imprese, ridotti in un mese del 4% segno che anche le aziende non possono più permettersi di investire.

Interessante notare che l’ABI ammette che i tassi pagati dalle banche alla clientela sui depositi si attestano allo 0.8% medio – ovvero una miseria – senza significativi incrementi e nonostante i dieci progressivi aumenti del tasso di riferimento decisi appunto dalla BCE.

La “forbice” della stretta creditizia non viene quindi immessa nel sistema privilegiando ad esempio finanziamenti mirati, produttivi o di incremento occupazionale ma resta alle banche che festeggiano con profitti da record semplicemente riversando i soldi raccolti quasi gratis dalla clientela nei rapporti interbancari ben rimunerati o comprando titoli di stato, lucrando così una splendida differenza senza rischi.

Difficile dar torto al governo se si permette di proporre di tassare in modo più pesante questi extraprofitti e non capisco perché l’ipotesi non dovrebbe essere sposata anche a livello comunitario, a vantaggio di spese “mirate” ed applicate da tutti i governi UE.

La BCE insiste con una politica solo sui tassi per frenare l’inflazione (questa almeno la vulgata ufficiale, che pochi si permettono di contestare) quando – nello stesso giorno del report ABI –  Confesercenti sottolinea come la spesa alimentare delle famiglie italiane (primo indice del consumo) si sia ridotto nel primo semestre 2023 di 3,7 miliardi di euro nonostante l’aumento dei prezzi: si compra insomma il 10% circa di meno. Una manovra per combattere l’inflazione sta raggiungendo il risultato di uccidere la crescita, eppure pochi sottolineano questa incongruenza soprattutto quando l’inflazione non è generata da eccessiva domanda a fronte di carenza di prodotti sul mercato, ma dall’aumento di prezzo alcuni beni – come quelli energetici – che non sono un “optional” ma indispensabili per soddisfare bisogni primari o il funzionamento delle imprese che non hanno possibilità di scelte alternative.

Ecco perché appare strano il silenzio dei governi, la rassegnazione della politica rispetto alla BCE, la mancanza di coraggio nell’ ammettere che alla base della spirale inflazionistica ci siano state alcune scelte di campo che si stanno rilevando un boomerang a medio termine, come le decisioni riguardo alla guerra in Ucraina che ha fatto esplodere la crisi energetica e l’aumento delle materie prime.

Una volta di più questo non significa che abbia ragione Putin, ma semplicemente che perpetuare una guerra sta danneggiando pesantemente soprattutto l’Europa e che quindi bisogna far fronte a questa emergenza tentando di risolverla intanto con un armistizio e non solo assistendo passivamente all’andamento della situazione sul campo, di fatto ormai incancrenita, solo progressivamente aumentando le spese militari di cui nessuno dà un rendiconto e spese in un paese sconvolto dalla corruzione.

Troppi paesi extra-UE che non sono legati a queste problematiche nel frattempo crescono e conquistano mercati, spesso insensibili alle tematiche ambientali e con gravi danni per il pianeta, rendendo così nulle scelte europee che però intanto ci auto-danneggiano. Una seria riflessione su questi aspetti dovrebbe essere al centro del dibattito politico ed economico, mentre invece resta solo sullo sfondo,

 

Approfondimento:

USA: TEMPESTE GIUDIZIARIE

Arrivano dagli USA – attutiti dalla distanza, dalla confusione e dai preconcetti politici –  gli echi di una complessa guerra giudiziaria che potrebbe condizionare la prossima campagna elettorale per le presidenziali del novembre 2024.

Per capirli, però, bisogna prima fare un po’ di chiarezza per il lettore italiano sul sistema giudiziario statunitense chiarendo tre aspetti fondamentali.

Il primo che la giustizia americana è “politica” nel termine più ampio del termine poiché giudici e procuratori sono tutti di elezione diretta da parte dei cittadini.

Esistono candidati indipendenti, ma di solito tutte le cariche pubbliche – dal preside scolastico al capo dei pompieri di una città, passando appunto per i giudici – sono scelti tra candidati repubblicani o democratici.

L’elettore può votare nella sua maxì-scheda un candidato giudice democratico e un deputato repubblicano, ma di solito vota la “lista” (partitica o, meglio, di schieramento) proposta da un partito per tutti i candidati alle diverse cariche di una specifica tornata elettorale. Avremo quindi procuratori democratici o repubblicani ovviamente più o meno solleciti (o sollecitati) ad accusare un avversario politico

Il secondo è il termine di “Gran Giurì” che da noi viene interpretato come una sorta di giuria processuale, mentre invece è solo un gruppo di cittadini –  estratti a sorte – che devono valutare se le prove raccolte dall’accusa siano o meno sufficienti per procedere in un’azione penale, un po’ come il GIP in Italia.

Non si entra quindi nel merito delle accuse, l’imputato o i suoi difensori non sono presenti alla seduta e praticamente i “gran giurì” danno sempre l’assenso a continuare nella causa, anche perché nessun procuratore si presenta senza avere in mano almeno degli indizi.

Terzo aspetto fondamentale da chiarire è il termine di “impeachment”.

E’ l’avvio di un processo a carico di una carica pubblica (ad esempio un presidente) se si ritiene che per gravi motivi debba essere rimosso. Un processo lungo da parte del Congresso e che deve vedere favorevoli sia il Senato che la Camera dei Rappresentanti. Mentre nel tempo queste messe in stato d’accusa erano una rarità, oggi – soprattutto quando una Camera ha una maggioranza diversa dall’altra – sono diventati un motivo di scontro politico, anche se è ben difficile che un Presidente venga destituito perché il quadriennio elettivo scorre veloce.

Più che altro è un’arma di pressione e show a beneficio dell’opinione pubblica, come quella avviata a suo tempo dai democratici contro Trump e che intenderebbero avviare ora alla Camera i repubblicani contro Biden.

Nello specifico contro Trump non si sta ora avviando un impeachment (non è presidente in carica), ma una serie di accuse che potrebbero impedirgli di partecipare alla campagna elettorale e intanto la richiesta di un procuratore (democratico) di impedirgli di parlare dei casi giudiziari a suo carico, ovvero di “silenziarlo” sul principale tema della sua campagna elettorale, scatenando la bagarre.

Donald Trump ha infatti reagito subito alla notizia con il suo solito stile:
“Il procuratore di Biden, lo squilibrato Jack Smith, ha chiesto alla corte di limitare il 45mo presidente e principale candidato repubblicano. In pratica io combatto contro una persona incompetente che ha usato come un’arma il Dipartimento di Giustizia e l’Fbi contro il suo avversario e non mi è consentito commentare?”  Segue l’appello agli elettori: “Sono stato incriminato per voi: i democratici hanno utilizzato le forze dell’ordine come armi per prendermi di mira: quello che il corrotto Biden sta facendo è interferenza elettorale al massimo livello”.

Sul fronte repubblicano, infatti, da tempo si accusa Biden di corruzione – direttamente e tramite il figlio Hunter Biden, personaggio di pessima fama – per traffici legati a rapporti commerciali con la Cina e l’Ucraina sui quali l’FBI sarebbe stato reticente e in settimana Hunter è stato effettivamente incriminato, ma per uno strano reato marginale legato all’acquisto di una pistola senza aver dichiarato i suoi precedenti di uso di droga.

Un’accusa – convalidata da un gran giurì, ovviamente – che è un “cavallo di troia” per inguaiare il padre e continuare ad indagare sulla “polpa” dell’inchiesta, ovvero i rapporti commerciali di famiglia quando Biden era il vice-presidente di Obama operando con società-ombra che i repubblicani da tempo accusano di scorrettezze fiscali e politiche.

In questo clima si aspettava in settimana l’avvio ufficiale di una procedura di impeachment direttamente contro Biden avviata dai repubblicani che – alla Camera – contano 10 voti in più dei democratici.

Scontato che al Senato tutto si fermerebbe comunque, ma la mossa sarebbe clamorosa quanto pericolosa poiché non tutti i repubblicani sarebbero favorevoli e – se il voto del gruppo non fosse unanime – una eventuale sconfitta sarebbe catastrofica per la reputazione dello speaker (ovvero il capogruppo repubblicano) Kevin McCarty  e tutto il suo partito.

Tutto (forse) rinviato e le incertezze sono dovute al fatto che nelle prossime settimane il Congresso dovrà votare il bilancio 2024 (sul tema i democratici, senza maggioranza, sono sotto scacco) e alcuni repubblicani pensano di poter così avere più peso contro Biden.

Di sicuro la reazione della Casa Bianca non si è fatta attendere. “I repubblicani della Camera hanno indagato sul presidente per nove mesi e non hanno trovato alcuna prova di illeciti, la richiesta di impeachment è estremismo politico nella sua forma peggiore”.

Battaglia aperta, insomma, e mancano ancora 14 mesi alle elezioni presidenziali!

 

BUONA SETTIMANA A TUTTI!                                         MARCO ZACCHERA

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