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MAFIE E RELIGIONI: NO ALLE SEMPLIFICAZIONI

 

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di Domenico Bilotti

 

Le connessioni simboliche tra i riti religiosi e le affiliazioni criminali occupano da tempo una parte importante della riflessione scientifica contro le mafie. Ne è buona prova, dopo l’arresto dell’ultimo grande latitante della mafia stragista, Matteo Messina Denaro, l’attenzione agli atteggiamenti e ai malintesi sensi morali che i mafiosi hanno sempre tentato di veicolare. Su questa scia, l’articolo di Andrea Molle per l’Huffington Post del 4 ottobre: “Mafia e religione spesso vanno a braccetto. In quattro modi diversi”.

Dare al tema il giusto risalto, e peraltro da una delle più lette testate solo telematiche del giornalismo italiano, è un segnale importante e l’analisi di Molle, pur senza originare una vera e propria tassonomia di ricerca, riassume adeguatamente alcuni dei principali (non tutti!) profili di connessione tra la simbologia mafiosa e l’abuso di quella religiosa.

Innanzitutto, nella realtà sociale italiana e, forse ancor più spesso, meridionale, la Chiesa ha tardivamente effettuato una rigorosa presa di coscienza di rifiuto e denuncia delle mafie. In molti casi, ciò è stato non intenzionale: frutto di un agire collettivo che con la mafia si misura giornalmente, come hanno dimostrato le insistite (e non sempre di buon gusto) videoriprese da Castelvetrano e Campobello, quando Matteo Messina Denaro è morto per un male incurabile. In altri casi, però, e non così occasionali, quella sistematica sottovalutazione, quel downgrade alla consuetudine, sono stati ricercati deliberatamente, per trarne profitto, governo del territorio, mentalità d’obbedienza.

Ci pare che questa fase possa però dirsi superata sul piano sistemico e delle fonti (anche nel diritto canonico) e che se abusi vi siano stati essi, quando perdurano, sono più conseguenza di deficit singoli, che non di lacune istituzionali di vertice.

Un altro aspetto interessante, nel corsivo del Molle, è costituito dalla valenza chiaramente transnazionale dei rapporti tra mafie e forme estrinseche e intrinseche della religiosità. Le prime, appunto, legate alla simbologia (diffusa nella malavita russa, in quella giapponese, nelle triadi, nei codici dei gruppi albanesi, nel cultismo nigeriano e molto altro) e le seconde tutte indirizzate a ottenere obbedienza, elevata coesione interna, accettazione di norme consuetudinarie illegali e prevaricatrici. Il gioco della giustificazione morale attraverso i simboli proprio a questo punta: a rendere invisibile la prevaricazione nell’ambiente dell’acquiescenza, dell’omertà e dell’assoggettamento.

Ci pare però che anche su questi temi sia fondamentale aggiornare, dati pratici e acquisizioni metodologiche alla mano, il nostro sguardo. Come dal punto di vista sostanziale la mafia è di molto cambiata – e in alcune mafie, come quella camorristica, i rituali di affiliazione spesso non riguardano tutti i soggetti associati che pur compongono i sodalizi criminali – lo è dal punto di vista strettamente simbolico-rappresentativo.

È sempre più complesso, anche in forza dell’azione repressiva dello Stato, mantenere una gerarchia stabile e inamovibile (non importa qui se capziosamente maturata dalle cariche massoniche o da quelle ecclesiastiche) e di conseguenza la prova giudiziaria del momento affiliativo è sempre meno indicativa dell’esistenza dell’associazione.

Nei contesti territoriali locali, poi, la strenua difesa dei vincoli religiosi (le processioni, le sagre, le liturgie) non palesa più una specifica imitazione dell’ortodossia sacramentale: ambisce piuttosto a far vedere che i clan sono favoriti e riveriti nell’ordine civile come nelle celebrazioni di quello divino. Conferma, cioè, il mafioso la sua tipica ambivalenza tra un altisonante pubblico e un inconfessabile e giustamente insondabile privato.

I simboli religiosi sono una scorciatoia rispetto a ogni teologia e pedagogia “mafiose”: sintetizzano in modo riconoscibile una cornice di sudditanza, di ritualità, di sopravvivenza dell’associazione alle contingenze criminali e criminologiche del tempo presente.

Un cantiere di riflessione così aperto all’oggi deve avvenire senza ricalcare modelli già sperimentati e da tempo modificatisi, sebbene mai estinti: non riprendendo l’emblema dei santini bruciati, dei comandi gerarchici della mafia stragista, ma misurandosi in mare aperto con una costruzione tentacolare dove i confini tra agire legale e agire illegale sono sempre meno netti e tutti gli usi hanno uno scopo soltanto. Dare cornice morale a profitti privi di lealtà.

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