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IL FARO DI OSLO

di Marco Patriarca*

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Nel 1991 un giovane diplomatico norvegese, un giurista e sua moglie sociologa, diplomatici a Tel Aviv, colpiti dai disastri dell’inarrestabile violenza del conflitto Arabo Israeliano e dei suoi effetti sulla società palestinese, dopo le disastrose guerre del ‘48, ’67, ’73 e ‘82 e degli inutili tentativi di pace di Kissinger, Chirac, Heath e Kohl, chiesero al FAFO, il loro sindacato norvegese, il permesso di trascorrere un anno sabatico per studiare quel complesso mondo mediorientale alla ricerca di un rimedio a quell’inarrestabile conflitto. Quando nel 1992 il FAFO Report arrivò a Yitzhac Rabin ed a Yasser Arafat, i due miracolosamente ritennero che in quello studio vi fossero finalmente le basi per degli accordi di pace duraturi e per altre misure sull’autonomia dell’Autorità palestinese sugli insediamenti a Gaza, il riconoscimento di Israele, la sicurezza e la creazione delle condizioni pratico-economiche, per far nascere uno Stato palestinese come previsto dall’ONU nel 1947. In omaggio a quei due giovani ed al FAFO gli accordi furono poi solennemente firmati a Oslo il 20 agosto nel 1993 e poi controfirmati a Washington il 13 settembre di quell’anno prefigurando una nuova era per il Medio Oriente e la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Poi il 5 novembre 1995, Yitzhac Rabin fu assassinato da un fanatico israeliano e Yasser Arafat restò in vario modo un ambiguo ostaggio dei paesi arabi ostili alla teoria dei due Stati e indifferenti del destino dei palestinesi. Nel 1997, la canadese Hebreu Fundation Samuel Bronfam, la Commission Attali e l’Ue lanciarono un primo ampio convegno al Middle East Centre del St. Anthony’s College di Oxford, per riproporre gli Accordi di Oslo, invitando studiosi, giornalisti, egiziani, sauditi una trentina di autorevoli figure politiche, tre vice-ministri arabi, vari accademici ed economisti inglesi, canadesi, francesi, palestinesi, israeliani, giordani, fra cui i pro-rettori rispettivamente della Jewish Univesty of Jerusalem Ephraim Kleinman e della Nablus University Hisham Awartani, la sociologa saudita Mae Yamani e altri. La Conference durò due giornate e fu ripetuta 8 mesi dopo.

Invitato come osservatore a quella Conference, ho osservato come dietro le buone maniere, i cortesi convenevoli e il tono persino amichevole fra illustri colleghi, regnasse tensione, diffidenza e animosità nei commenti alle relazioni in corso: la sbrigatività nelle risposte soprattutto se qualcuno osava menzionare l’ipotesi della creazione di uno Stato Palestinese. Per nulla dire, le pressanti domande del coordinatore britannico ai responsabili arabi sulla necessità del riconoscimento dello Stato di Israele. Negli anni successivi, fra scontri continui e terrorismo traghettato in Europa, la paura di nuovi attacchi e l’eco dell’assassinio di Rabin ha continuato a scoraggiare altre iniziative di pace; fino alle nuove aspettative nate dalla ripresa dei colloqui del governo laburista israeliano di Ehud Barak. Per i nuovi colloqui di pace la Siria di Assad si mise subito di traverso, seguita dagli altri e l’Egitto e la Giordania sono restati per vent’anni gli unici paesi arabi che hanno riconosciuto Israele. Grazie a quei due giovani studiosi norvegesi, pieni di acume e di buonsenso, gli accordi di Oslo potrebbero ancora essere l’unica base per fermare una guerra che si annuncia con implicazioni geopolitiche assai peggiori delle quattro precedenti. L’unico compito che l’Europa dovrebbe darsi è quello di lanciare subito una proposta in tal senso: cioè quella della fondazione di un vero e proprio Stato palestinese riconosciuto dall’ONU e dalla comunità internazionale, secondo il modello italiano auspicato per la Palestina nel 1978, dopo la guerra del Kippur, dal giurista saudita Mohammed Al Fusaini, che a Roma aveva ben studiato Pasquale Stanislao Mancini, Santi Romano e Costantino Mortati.

La nuova guerra                                                                                                   

HAMAS dai territori palestinesi, nella totale latitanza dell’Autorità Palestinese e del Fatah, ha scatenato un’altra guerra unilaterale, ancora più feroce e disumana contro Israele, uccidendo almeno 1.500 dei suoi cittadini e sequestrandone 200. Il timore è che il precario equilibrio fra le grandi potenze e il gioco spregiudicato delle alleanze politiche e militari e/o economiche, prefiguri che la mala combinazione del furore antioccidentale e le reazioni di Israele, prefigurino le condizioni per una deflagrazione mondiale; un’eventualità che però la massima parte fra i più affidabili studiosi, sulla scorta di attente considerazioni, sembrano escludere (Bill Emmot, Kenneth Pollack, Paul Anton Kruger, Noah Harari).

Lo storico Arnold Toynbee ha spiegato, ormai ripreso da una quantità di studiosi, quella che potremmo definire La sindrome di Toynbee che: quando una società ha raggiunto la sua modernità ed ha scavallato la parte residuale del proprio passato, ed entra in contatto con un’altra, ancora legata al mondo esistenziale, sprigiona verso questa “una irresistibile forza radioattiva per cui la società sottostante si sente attaccata e reagisce con violenza per non restarne sopraffatta”. La società “attaccata”, già in declino, sostiene Toynbee, a quel punto entra in crisi e si divide fra “erodiani”, che fra mille difficoltà tentano di cogliere i vantaggi della nuova modernità, e gli “zeloti” odiatori del mondo nuovo che l’avversano con tutte le loro forze, anche con la violenza e con la guerra.

Le armi dell’odio

In quanto alla reazione di Israele, i suoi alleati dovranno continuare a dissuadere, per quanto possibile, un’invasione a tutto campo di Gaza e di limitarsi a operazioni militari chirurgiche mirate a distruggere HAMAS, senza cadere nella trappola micidiale che gli Ayatollah iraniani e forse Putin, hanno preparato, per Benjamin Netanyahu e i sui alleati. Dovrà tenere ben presente che gran parte dei palestinesi sono in larga misura le vittime di HAMAS e non gli aggressori di Israele. In questo, almeno uno stato democratico come Israele, dovrebbe rispettare il diritto internazionale, la Convenzione di Ginevra del 1950 e distinguere fra lo jus ad bellum e lo jus in bello. Israele non dovrà sottovalutare che gli irriducibili miliziani di HAMAS, pronti a tutto, sono circa 15.000 e che una guerra dentro Gaza sarebbe una devastante macelleria, che non mancherebbe generare ovunque violenza e paura: un boomerang politico per Israele e una trappola perfetta ordita da HAMAS e dai suoi non pochi sostenitori nel mondo arabo per alimentare la Jihad in Europa.

La nuova infowar

Fra recriminazioni, false accuse ed informazioni non verificabili, le piazze europee e americane, si sono riempite di giovani che sventolano bandiere di HAMAS, postano slogan anti israeliani e anti americani e ignorano interamente le feroci macellerie perpetrate da HAMAS contro civili israeliani,  alimentando, così, una nuova infowar, simile a quella che ormai ben conosciamo: i media di mezzo mondo e i nostri intemerati talk show, sono stati velocissimi, senza verifiche, ad attribuire ad Israele il “bombardamento dell’Ospedale di Gaza”, Frattanto, la infowar fa il suo mestiere, sostenuta dalla Russia in combutta con l’Iran, e lavora per screditare l’odiato Occidente. Intanto i governi arabi, solidali con HAMAS, finanziata dal Qatar, sono in rivolta contro Israele e hanno ignorato (persino la Giordania) la visita pacificatrice del presidente americano, mentre immense folle si scatenavano non solo contro Israele ma contro l’America e l’Europa. Le macabre macellerie, le decapitazioni e la ferocia di HAMAS contro migliaia di civili israeliani, donne e giovani festanti, non vengono neppure menzionate

Nessuno mai ricorda che è stato, per settant’anni, solo lo stramaledetto Occidente a battersi per la soluzione prevista dall’ONU nel 1947, di uno Stato palestinese accanto a Israele: una soluzione sempre avversata da tutti paesi arabi che li hanno disprezzati, cacciati da casa propria e spesso uccisi, come avvenne nel massacro di 3.000 di loro a Sabra e Chatila nel 1982 per mano dell’esercito libanese. Tutti i paesi arabi, dal Qatar all’Arabia Saudita, al Libano che ospita Hezbollah e ai paesi del Golfo, sono tutti musulmani che devono le rispettive economie e i loro rapporti diplomatici e culturali con l’odiato Occidente; ma di fronte all’urlo assassino Allah Akbar del terrorismo islamico tacciono. Frattanto, mentre centinaia di idioti nostrani riempiono le piazze e inneggiano a HAMAS, i paesi arabi che comprano le nostre banche, muovono a piacimento le borse mondiali, sempre attenti ai loro diritti, ai loro affari e alla loro sicurezza, osteggiano ogni iniziativa per i diritti dei loro fratelli musulmani palestinesi schiavi del terrorismo, che loro stessi vergognosamente sostengono e finanziano. Nel loro modo, alimentando nei loro sudditi islamici ostilità, alienazione e terrorismo, cioè un’altra forma di guerra per procura.

J’accuse

Nella guerra di HAMAS a Israele i geopolitici sono divenuti geo-storici: si torna alla Bibbia ed alla Terra Promessa a Israele usurpata dai musulmani: da una parte non si evoca l’ebraismo di Gesù di Nazareth e quello odierno; dall’altra si evocano le Crociate, la Dichiarazione Balfour del 1917 e la risoluzione dell’ONU del 1947 e si racconta la Palestina sempre vittima dell’Occidente. Mai che ci si imbatta in un chiaro e forte J’accuse (alla Oriana Fallaci), nei confronti del mondo arabo, della violenza del fondamentalismo religioso, dell’insopportabile Islam politico e la sua connivenza con la barbarie terroriste. Nelle tragiche circostanze di questi giorni, oltre alle giuste recriminazioni anche per le vittime palestinesi della reazione israeliana, non una parola per gli orrori perpetrati a quelle israeliane; per loro non si muovono le piazze e persino gli inarrestabili social sembrano muti.

*Società Libera   da Agenda Geopolitica

www.societàlibera.org

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