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SCANNO – Il borgo di Scanno (L’Aquila), è noto nel mondo per la sua bellezza e per le sue tradizioni anche grazie alle opere di celebri artisti che nel corso del secolo scorso hanno ritratto il paese e il territorio, esaltandone le peculiarità: notissime le litografie dell’incisore olandese Escher e poi gli scatti di fotografi come Hilde Lotz-Bauer, Ferdinando Scianna, Gianni Berengo Gardin, Mimmo Jodice, Chris Warde-Jones e tantissimi altri.

Esiste però una fotografia, di un altrettanto valido autore, Mario Giacomelli, che è entrata nell’immaginario collettivo come “misteriosa” se non addirittura “inquietante”, la cosiddetta immagine del “bambino di Scanno”.

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Giacomelli, uno stampatore libraio di Senigallia fotografo per hobby, si recò nel paese verso la fine degli anni ‘50 insieme al suo collega e fraterno amico Renzo Tortelli: i due giovani conoscevano molto bene le opere scannesi dei loro celebri predecessori, anzi, in realtà le giudicavano un po’ troppo oleografiche, da cartolina, se è vero che proprio grazie ad alcuni di quegli scatti era andato rafforzandosi nel mondo il mito dell’Abruzzo arretrato e con le vecchiette vestite di nero.

Oggettivamente era però difficile fotografare qualcosa di diverso, soprattutto nel centro del paese, e lo stesso Giacomelli, quel fatidico giorno del 1957, si accingeva rassegnato a scattare un quadretto tradizionale con alcune donne in nero, quattro per l’esattezza, e un bambino che camminava nel mezzo, fino al fatto imprevisto, che avrebbe cambiato per sempre la sua vita e la storia della fotografia: stampando la foto in camera oscura l’autore si rese conto che il ragazzino aveva una espressione beffarda, inquietante, quasi di sfida, sembrava materializzatosi dal nulla, con la sua posa curiosa, la presenza totalmente incoerente con il contesto, le orecchie a sventola e le mani in tasca.

In poche parole si era verificato uno di quei rari miracoli che lo studioso Roland Barthes definiva come “punctum”, ossia l’energia autonoma di una immagine, dal momento che l’espressione furba e spensierata del ragazzino che camminava in un sentiero di luce contrastava totalmente con quella rassegnata e triste delle donne in nero.

Mentre stampava dal negativo l’autore si rese conto delle straordinarie potenzialità della foto, ma dovette compiere ancora un miracolo, dando una esposizione separata a ciascuna delle figure ed evidenziando i contrasti di luce sul viso e sul collo della camicia del ragazzino.

Giacomelli espose l’immagine in stampa per 30 secondi, poi il ragazzo per altri due minuti, e le due donne ai suoi fianchi per svariati minuti: ancora oggi gli studiosi di tutto il mondo si domandano come sia stato possibile ottenere un bilanciamento così incredibile, un vero e proprio capolavoro, per altri ancora un vero e proprio mistero.

La particolarità e il fascino beffardo di quest’opera iniziarono a fare il giro del mondo, finché il Museum of Modern Art di New York la inserì in una mostra importantissima, nel 1964.

Un altro mistero accompagnava la fotografia, legato alle generalità delle persone ritratte, fino a quando la giornalista Simona Guerra, nipote di Giacomelli, non ha deciso di tornare a Scanno, sulle tracce del bambino, e dopo alcune faticose ricerche ha scoperto che il ragazzino si chiamava Claudio De Cola, e da adolescente era stato mandato a L’Aquila, a studiare in un convento, e poi in Toscana, dove vive ancora oggi. Anche le signore ritratte ai fianchi di Claudio hanno finalmente avuto u nome, quella a sinistra si chiamava Sapienza, quella di destra Paolina.

La straordinaria vicenda della foto del “bambino di Scanno” ci rivela una volta di più la grande potenza delle immagini, che insieme a quelle in movimento del cinema costituiscono una formidabile macchina del tempo, a nostra disposizione, in grado di rievocare atmosfere, volti, attimi del passato, e, come in questo caso particolare, anche un appassionante “mistero”.

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