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Manlio Sgalambro. Il filosofo dell’empietà

Pierfranco Bruni

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Il 6 marzo del 2014 moriva a Catania Manlio Sgalambro. Era nato il 9 dicembre del 1924 a Lentini. Un filosofo che ha cercato nelle contraddizioni della verità il senso di una esistenza. O meglio l’esistenza. Il vero e la finzione nel cerchio inevitabile dell’inimitabile.
Il filosofo ha la indefinibile ricerca del vero o del certo? Un ambiguo enigma che si focalizza nella logica non logica di Spinoza o forse no?  La tempesta è d’acciaio lungo il sentiero di un dolore in incipit che tocca la tragedia nel momento in cui ogni crepuscolo va a tramontare.
Nietzsche c’è tutto. In un “crepuscolo e notte” che supera strategicamente Hegel trova il suo primo confronto con il Kant della “rappresentazione” della morale e della pratica ragione che svanisce con Schopenhauer che anticipa quel Wagner che stabilirà un vivere un o il conflitto con il superamento della “gaia scienza”. In mezzo c’è “La morte del sole” (opera d’inizio) nella quale scrive: “Le menzogne della filosofia della scienza non sono le sue convenzioni, bensì la sua convenzionalità: essa è rassicurante. Cosa ne è dell’abisso attorno a cui si dispongono le immagini di regolarità? La filosofia della scienza evoca le sue leggi, di cui discute il tenore, ma tace dell’irregolarità, del disordine da cui nascono”.
Il disordine nella vita è il disorientamento che è anche del linguaggio perché utopia e storia (Cioran) è l’inquietudine che segna il disegno della modernità. Siamo abitatori di un “tempo pessimo” che corre nel nostro sangue greco pur abitando il tempo archeologico delle nostre coscienze. Lo scavare nell’anima è tragico.
Cosa rende ciò? La mortalità. Non conosciamo affatto il desiderio dell’immortalità pur essendo greci ed essendo tali dovremmo impossessarsi degli dei. Ci resta soltanto il simbolo.  Poi il mito e gli archetipi. L’uomo pessimo moderno non conosce il viaggio dell’anima. Dive sta? Vorrebbe impossessarsi del non morire senza infrangere il suo sguardo nell’isola di Calipso.
Se occupassimo il territorio di Calipso resteremo incerti di fronte alla “misantropia” e il tempo finito sarebbe soltanto mera solitudine.
Così in “Della misantropia” si legge: “C’è l’infelice che possiamo definire astratto. Egli è infelice e basta. C’è il più infelice che odia se stesso. Infine c’è l’infelice assoluto che odia immediatamente se stesso e mediatamente l’altro. Costui è il misantropo”.
Sgalambro è un punto di riferimento della filosofia post decadente, i cui punti nodali sono dentro la “strategia” tragica greca. Il tragico è un assurdo labirintico che viaggia da Schopenhauer a Nietzsche sino a Cioran. Crea un dialogo costante con Kant. Uno specchio speculare per rappresentarsi come il filosofo impossibile di una filosofia imperfetta.
Può esserci una filosofia imperfetta? La verita è imperfetta? In “La consolazione” Sgalambro cesella: “L’amore per la verità è l’amore per le parole con le quali essa manifesta la sua presenza. Perché la verità, in una certa misura, è fatta di un paio di frasi, e noi ce ne appassioniamo per tutta la vita”.
Insomma, siamo conoscenti del peggio? Non so che conosciamo il peggio nel momento in cui si rivela o se è già dentro di me di noi. Rispondere è come rimandare la consolazione stessa o il far di conto che gli anni che ci conducono alla senilità.
Siamo nel campo “Del pensare breve” che è l’oltre del tempo stesso perché ci impone una empietà della riflessione tra il paziente e la non pazienza: “Ci si trascina di notte per le vie e si parla tra sé. Il dialogo alligna di giorno e risuona dei suoi traffici ignobili. Di notte si monologa. Come dei re”.
Eredità e empietà. Tempo e età. Non eternità. L’immortalità è una teoria. La non eternità è la storia. Una teologia dell’essere. Si allontana da Kant proprio in virtù della necessità di spezzare il tempo per riuscire a ricomporlo allontanandosi dalla manifestazione dell’io in quanto manifestazione dell’ambiguo.
Dirà: “Depreco egualmente il trionfalismo di Kant e in genere di quelle filosofie che, trovando necessario partire dall’io, inneggiano ad esso come se fosse una grande conquista e non invece la miserabile sorte che ci è toccata” (in “Dialogo teologico”).
Le parole sono uno sproposito. Raccontano molte volte ciò che non siamo e non pensiamo. Ma cosa siamo e cosa pensiamo? Il tempo è una frammentazione del non conosciuto e il non conosciuto non si conosce conoscendo l’altro ma diventando pensiero e isola. Isola nel pensiero.
Il resto da sottolineare sta nel fatto che “Noi proveniamo dalla società, ma è allontanandoci che prendono forma la nostra distinzione e una non ignobile virtù”, ovvero bisogna saper penetrare quella “indifferenza in materia di società”. Il filosofo dell’empietà è uno spazio tra le parole il pensare e l’isola.

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