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Le ragioni dei meno

di lorenzo merlo

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Considerazioni sulla realtà dell’inferno. Come lo chiamano i cattolici, e non solo.

 

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente. (1)

 

Ci sono periodi negativi. Non solo socialmente, politicamente ed economicamente, ma anche individualmente. Sono corpo unico con le variazioni necessarie per riconoscere e distinguere come mantenere un non meglio precisabile equilibrio olistico.

Potrebbe trattarsi di allenamenti dell’inconsapevolezza, imposti da buie trame sataniche, o anche di andamenti cosmico-energetici, in forma di decadimenti, sussulti e rinascite destinati a mantenere, a rivelare la vita, entro i quali cogliere la verità universale e distinguerla dall’effimero storico.

Ma non accade. Essi, gli andamenti e le alternanze, sono giudicati dagli uomini secondo la loro piccola unità di misura, idonea ai propri interessi storici e al sostegno delle proprie ragioni.  Un filtro egoico che li rende inetti a comprendere che c’è oltre il loro orizzonte lungo un istante ma scambiato per l’eternità. Oltre ciò che ritiene essere il suo diritto e la sua proprietà, oltre a quanto le sue emozioni gli impongono di fare e i suoi sentimenti di credere.

Altrimenti, vedrebbe che nella natura abbiamo il disvelamento tanto dell’essere, quanto dell’esserci, direbbe Heidegger. Significa che essa non è che allegoria e metafora di tutto quanto c’è al mondo e di tutto quanto occorre prendere coscienza al fine della conoscenza. Primo fra tutti, la relazione di tutte le cose.

Nonostante tutto ciò sia già stato scritto in lungo e in largo dalle tradizioni sapienziali – gli interessati possono dare un’occhiata a quella dei Veda, dell’Alchimia, del Nagualismo e, se ciò fosse per loro inammissibile, stile Mentana, che più o meno ebbe a dire: i ciarlatani novax non hanno voce nel mio programma, possono rivolgersi al più contiguo e meno esotico neoplatonismo – evidentemente non possiamo fuggire all’arco discendente sul quale siamo in groppa. Ciò che sta accadendo in Occidente, non è che la realtà di un girone infernale, venduto come progresso a cui, come ci vogliono far credere i timonieri, non c’è alternativa.

Agli antichi che avevano visto quanto ora Mentana dimostra di non essere in grado di cogliere – e con lui l’intera moltitudine degli scientisti, ovvero pressoché tutti noi, in quanto marchiati dall’imprinting materialista – non penso sia opportuno investirli di doti superiori a quelle del giornaliero giornalaio e, come detto, a quelle di tutta la sua stirpe obnubilata. È infatti degno di attenzione e verifica un altro aspetto che potrebbe essere utile per rivelare la differenza di decimi tra la vista binoculare dei materialisti e quella trinitaria di chi osserva che ogni materia richiede uno spirito affinché possa mostrarsi nel regno delle forme.

È un aspetto che per essere traguardato richiede un cambio di scala. Da quella topografica, utile per le pulciose faccende domestiche, a quella che perde i dettagli ma mostra l’intero territorio dell’uomo. In questo tipo di mappa si vedono le epoche, gli andamenti della storia, le perdizioni e le mode. Si vede l’origine delle onde, del tempo, delle concezioni del mondo e anche di ciò che ci travolgerà. È una cartografia rivelatrice delle concezioni del mondo in funzione del seme che le ha ingravidate. Chi dispone di tale mappa è, giocoforza, chiaroveggente.

Concezioni dunque, da cui si evince la differenza tra il pensiero e la relativa azione degli uomini che hanno in sé il senso del legame con la propria origine unica o, all’opposto, che l’hanno perduto, che ne sono ignari, che non lo ritengono accettabile, che, come i mentanisti, neppure sanno di che si tratti. Anime alla deriva cosmica senza più collegamenti con la madre di tutto.

L’uomo che opera consapevole di essere un emissario dell’infinito, realizza una politica, un’educazione, una cultura differente da quella in cui siamo immersi, la cui natura è il compimento della propria ragione terrena. Un culmine che include bellezza, serenità, salute, piacere. In questa concezione, il rischio di realizzare uomini compiuti e armonia sociale è assai più elevato di quello riscontrabile nel contesto culturale in cui ci troviamo. Un diorama da naufraghi aggrappati a un brandello di fasciame, in cui sgomitiamo in guerra tra poveri, pur di guadagnare un pezzo di relitto più grande. Superlativo compimento della insoddisfazione, dell’alienazione, della frustrazione e della paura. Fino alla sofferenza, mai vista come ponte di ascesi, sempre vissuta come malasorte da scacciare con miracolose pastiglie, con miliardari chirughi.

Avvertito il legame con l’infinito, accadono magie che il mondo della logica e quello meccanicistico – globuli di cartesiana natura – non sono in grado di ammettere. Accade che gli altri diventano dei noi in altro tempo e modo, che l’eterno ritorno non sia più una panzana ma un’ovvietà, che il tempo lineare non serva a nulla se non a erigere Torri di Babele, il cui destino sta nel crollo catastrofico di se stesse. Magie come lo è la dimensione evocata dalla fisica quantistica, modalità moderna e occidentale di riconoscimento dei limiti del materialismo e del suo ferreo fratello meccanicismo.

Nella fisica dei quanti, onda o particella, sono solo decadimenti di un solo ente che prende identità univoca secondo circostanze energetiche. Quelle che l’oracolo raccoglie in sé e di sé insemina la realtà. Tra la messe di rivoluzionarie implicazioni che il pensiero di Heisenberg e sodali comporta, c’è quella che ogni pensiero, sentimento e parola ha il potere di intercedere nell’evoluzione della realtà. Esattamente come avviene in noi, uno stato di rancore la fa pesante e uno di serenità la fa amabile. È solo in questo la magia, quella scienza suprema che gli scientisti d’ogni schiatta, con saccenza, deridono, non essendo in grado di concepirla altrimenti che come un impossibile e ciarlatano gioco di prestigio.

E se vediamo in che termini gli altri siano dei noi, significa che siamo in ottica cristica. Quella in cui la nostra sofferenza non ci riguarda se non per riconoscerla e viverla quale la sofferenza dell’umanità. Il solo modo affinché il potere della nostra vibrazione sia evolutivo per tutti gli uomini. Diversamente limitando il discorso del dolore a noi stessi, non avremo modo di farlo recedere arrivando ad annullarne la sua stessa origine, in qualunque modo essa si sia espressa attraverso noi. Arrivando a riconoscere che, così come l’avevamo creato, così possiamo liberarcene. Arrivando al cospetto della presa di coscienza di quanto sia assoluta la verità che siamo creatori di realtà.

Presi dall’importanza personale, uno dei primi sintomi della perdizione, ovvero della recisione dalla nostra origine, ci troviamo così, serenamente, a liberarci dei genitori, rappresentazione storico-microcosmica dell’Uno da cui tutto diviene. Guarda a caso, una scelta che le società tradizionali, ovvero quelle non sfregiate della violenza individualista, edonista e progressista, neppure concepiscono. I genitori sono sacri, proprio come il Dio, l’Ente, l’Infinito che ha concepito la vita e tutti noi.

Recisione che, in quanto a blasfemia, sembrerebbe tutto. Ma non lo è. La distanza dal centro, provocata dalla vanità e dalla lussuria, che si compie sull’onda dell’arimanico progresso, ci sospinge oggi a surfare felici verso il post-umano. Verso il territorio della digitalizzazione, in cui ogni legame analogico con l’origine storica, rappresentabile con l’identità culturale e sessuale, con la nazionalità, con la tradizione culturale, è affogato nella virtualizzazione del mondo.

Uomini come carpe koi, nuoteranno in acque opportunamente pasturate ad oppiacei, credendo che il mondo sia quello proiettato sul fondo della vasca. Sì, oltre alle Tradizioni e ai neoplatonici, anche Platone ci aveva già detto tutto.

 

Nota

1.       Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto III, vv. 1-3.

Informazione equidistante ed imparziale, che offre voce a tutte le fonti di informazione

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